L’avanzata della de-dollarizzazione e l’incertezza dei mercati occidentali hanno creato una situazione favorevole alla sperimentazione di alternative al cosiddetto “vecchio ordine”.
Il problema che non è più un problema
Parliamo di BRICS+ e di moneta. L’incedere della de-dollarizzazione, l’incertezza dei mercati occidentali che sono passati ad una “economia di guerra”, ha creato una situazione favorevole alla sperimentazione delle alternativa al cosiddetto “vecchio ordine”.
Se ripercorriamo i due recenti anni di attività molto intensa da parte dei BRICS, l’argomento centrale del gruppo nel 2024 è stato individuato nella percepita disfunzionalità dell’assetto dominato dal dollaro, effetto derivante da due fattori distinti:
- a) la trasformazione del dollaro e dell’architettura occidentale dei pagamenti transfrontalieri in strumenti di pressione geopolitica;
- b) le fragilità dell’economia degli Stati Uniti, il Paese che emette la valuta internazionale egemone.
Per quanto riguarda il primo elemento, è indubbio che la tendenza degli Stati Uniti e dei loro alleati a impiegare le proprie valute e i propri sistemi finanziari come armi geopolitiche – ostacolando gli Stati considerati ostili o non collaborativi per perseguire obiettivi nazionali – finisca per minare inevitabilmente la fiducia nelle istituzioni e nei meccanismi che essi stessi hanno creato e che controllano. Più la “strumentalizzazione” valutaria viene portata avanti, minore è la fiducia che l’ordine fondato sul dollaro riesce a ispirare. E la fiducia è sempre essenziale per la tenuta di istituzioni monetarie e finanziarie. Non solo i Paesi direttamente presi di mira soffrono le conseguenze delle sanzioni, ma anche gli altri Stati che commerciano o desiderano commerciare con essi, laddove quest’ultimi subiscono le cosiddette sanzioni secondarie, reali o potenziali. L’importanza di tali sanzioni secondarie cresce con il numero e il peso dei Paesi sottoposti alle sanzioni primarie da parte dell’Occidente, nonché con la dimensione, effettiva o potenziale, del loro interscambio con le nazioni sanzionate.
Il secondo fattore, sebbene meno immediato, riveste comunque un ruolo rilevante nel chiarire l’indebolimento dell’attuale ordine internazionale. La questione è di natura macroeconomica: la fiducia in una valuta dipende dalla fiducia nella politica fiscale, monetaria e finanziaria del Paese che la emette. Oggi, i fondamentali macroeconomici degli Stati Uniti non sono più quelli di un tempo. Gli americani continuano a predicare rigore, ma non lo applicano più. Per cominciare, la politica fiscale è fuori controllo: il debito pubblico cresce continuamente in rapporto al PIL, nonostante il fatto che, per molti anni, la Federal Reserve abbia mantenuto bassi sia i tassi d’interesse a breve che a lungo termine, al prezzo di una forte espansione della base monetaria. Con tali tassi relativamente contenuti sul debito, spesso negativi in termini reali, i saldi primari necessari a stabilizzare il rapporto debito/PIL non sarebbero irraggiungibili. Tuttavia, il sistema politico statunitense non riesce a produrre nemmeno surplus minimi, neppure in fasi di piena crescita economica. Di conseguenza, il debito aumenta rapidamente e non si intravede alcun limite all’incremento del rapporto debito/PIL o debito/entrate pubbliche.
In parte, tali disavanzi possono essere coperti creando moneta a costo quasi nullo, come accade in tutti i Paesi che emettono la propria valuta. Gli Stati Uniti godono infatti dei privilegi derivanti dal ruolo storico del dollaro come principale moneta internazionale. La quantità di dollari e titoli del Tesoro che può circolare è ampliata dalla domanda estera costante di attività finanziarie statunitensi. Questo spiega la ferma opposizione americana a qualsiasi iniziativa che possa indebolire lo status internazionale del dollaro. Perfino il tentativo di rafforzare i Diritti Speciali di Prelievo (SDR), la valuta multilaterale del FMI, è ostacolato dal ricorso – o dalla minaccia di ricorrere – al potere di veto statunitense previsto dagli Statuti dell’istituzione. Gli USA resistono persino alla proposta, tutto sommato limitata, di conferire un ruolo leggermente più ampio alla moneta di un organismo che essi stessi dominano.
I BRICS tentano l’alternativa
Negli ultimi anni, i BRICS hanno attirato una crescente attenzione internazionale come possibile fonte di alternative agli attuali assetti monetari e finanziari, considerati fragili e politicamente sbilanciati. Ciò non sorprende: da quale altra area potrebbero emergere tali alternative? Il resto dell’Occidente non ha né l’autonomia né la capacità necessarie per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Persino l’euro, che nei primi anni Duemila sembrava destinato a diventare un rivale del dollaro, non ha mantenuto tali promesse. Esso occupa una posizione subordinata nel sistema dominato dal dollaro, così come l’Unione europea rimane subalterna agli Stati Uniti nella politica internazionale – come dimostra l’allineamento delle autorità europee nell’applicare ai beni russi denominati in euro le stesse severe misure straordinarie imposte agli asset in dollari. Il Regno Unito è ancora più vicino agli Stati Uniti, senza mai discostarsi dalla “relazione speciale” con Washington; il vecchio detto continua a valere: la Manica è più larga dell’Atlantico. Quanto al Giappone, dal secondo dopoguerra non ha mai posseduto – e difficilmente potrà acquisire nel prossimo futuro – il peso politico per agire come forza monetaria autonoma; i suoi margini sono forse persino più ristretti di quelli europei. Gli altri Paesi ad alto reddito sono troppo piccoli per rappresentare alternative credibili.
L’euro, la sterlina, lo yen e le valute minori del blocco occidentale non possono competere con il dollaro e resteranno strumenti sostanzialmente subordinati. È quindi naturale che i BRICS, e in particolare la Cina, siano considerati la principale – se non l’unica – possibile fonte di alternative al sistema monetario e finanziario attuale, giudicato inadeguato. I BRICS hanno la massa critica e l’interesse strategico per cercare nuove soluzioni. Il resto del cosiddetto Sud globale non può realisticamente giocare un ruolo di rottura, anche se potrà partecipare a iniziative dei BRICS, specialmente come membri o partner.
Per la sua dimensione economica e la rapidità del suo sviluppo, la Cina rappresenta un caso a sé. Se i BRICS non dovessero agire congiuntamente, Pechino potrebbe comunque continuare a rafforzare gradualmente il ruolo della propria valuta e delle proprie istituzioni come alternative al dollaro e all’ordine che ne deriva.
La presidenza russa dei BRICS ha rappresentato un’occasione per verificare se queste diffuse aspettative sul gruppo trovassero conferma. In effetti, Mosca ha cercato di avanzare sul terreno monetario e finanziario – pur con risultati eterogenei. Il lavoro si è sviluppato lungo due direttrici. Da un lato, è stato istituito un gruppo di esperti incaricato di supportare la presidenza russa sulle questioni monetarie e finanziarie internazionali. Una delle idee prese in considerazione era la creazione di una nuova unità di conto, costruita come un paniere di valute dei Paesi BRICS, con pesi proporzionati alla dimensione economica relativa di ciascuno. Si tratta di un concetto non nuovo e tecnicamente semplice: una sorta di unità di conto analoga ai DSP del FMI, il cui valore oscillerebbe in base alla media ponderata delle variazioni esterne delle valute BRICS incluse nel paniere. Questa unità di conto potrebbe fungere da strumento transitorio in vista di una futura valuta di riserva. Tuttavia, né nel gruppo né tra i governi BRICS è emerso un accordo chiaro su tale proposta.
Ancora più rilevante è stata la seconda direttrice di lavoro, poiché il governo russo ha puntato in modo specifico su un elemento dell’ordine monetario internazionale: l’infrastruttura dei pagamenti transfrontalieri. L’architettura attualmente in uso, inclusa la rete SWIFT, soffre tanto della sua crescente strumentalizzazione geopolitica da parte dell’Occidente quanto di tecnologie e prassi ormai superate, che rendono i trasferimenti internazionali lenti e onerosi. La Russia ha presentato una proposta articolata per un’infrastruttura alternativa, indipendente da SWIFT e impermeabile alle interferenze occidentali. La nuova rete, denominata BRICS Cross-Border Payment Initiative (BCBPI), sarebbe digitale, basata sulle valute nazionali e gestita attraverso l’interazione diretta fra banche centrali. Essa consentirebbe non solo di aggirare le sanzioni, ma anche di ridurre i costi e accelerare i tempi di esecuzione.
Questa proposta è stata sottoposta agli altri membri BRICS ed esaminata dai funzionari governativi nel corso del 2024. Pur senza raggiungere un consenso pieno, elementi chiave della proposta russa – e tematiche correlate – sono stati inclusi nella Dichiarazione dei Leader al vertice di Kazan dell’ottobre 2024. Nella Dichiarazione di Kazan, i Leader hanno riaffermato l’impegno alla cooperazione finanziaria, ma superando le formulazioni generiche del passato: hanno infatti riconosciuto espressamente “i vantaggi diffusi di strumenti di pagamento transfrontalieri più rapidi, meno costosi, più efficienti, trasparenti, sicuri e inclusivi, fondati sul principio della riduzione delle barriere commerciali e dell’accesso non discriminatorio”. Pur evitando toni conflittuali – come tipico dei BRICS – e senza menzionare direttamente le criticità dell’attuale sistema dominato dall’Occidente, la dichiarazione ha di fatto elencato tutte le caratteristiche mancanti nell’infrastruttura esistente, fortemente influenzata dalla logica politico-sanzionatoria legata a SWIFT.
La dichiarazione ha inoltre accolto con favore l’uso delle valute locali negli scambi finanziari tra Paesi BRICS e partner commerciali, sostenendo una tendenza che rappresenta oggi la principale forma di de-dollarizzazione all’interno e oltre il gruppo. Ancora più significativo è stato l’incoraggiamento a rafforzare le reti di corrispondenza bancaria all’interno dei BRICS e consentire regolamenti in valute locali in linea con la BRICS Cross-Border Payments Initiative (BCBPI), che è volontaria e non vincolante. Il riferimento esplicito alla proposta russa e la sottolineatura del suo carattere volontario e non obbligatorio possono agevolare il progresso dell’iniziativa, come verrà discusso più avanti.
In chiusura, i Leader hanno affidato ai Ministri delle Finanze e ai governatori delle Banche Centrali il compito di proseguire l’analisi su valute locali, strumenti e piattaforme di pagamento e di riferire loro successivamente. Vale inoltre ricordare che il presidente brasiliano Lula è andato oltre la Dichiarazione di Kazan, affermando nel suo intervento che “è giunto il momento di avanzare nella creazione di mezzi di pagamento alternativi per le transazioni tra i nostri Paesi”, precisando tuttavia che ciò “non implicherebbe la sostituzione delle nostre valute”. Il Brasile appare dunque favorevole alla prospettiva di una nuova valuta di riserva.
Al contrario, altri Paesi – soprattutto l’India – hanno espresso posizioni diametralmente opposte, mostrando riluttanza o aperta contrarietà sia verso una valuta alternativa sia verso proposte più moderate. Il ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, ha dichiarato chiaramente che l’India non ha mai avuto problemi con il dollaro e che l’idea di una nuova valuta non sarebbe praticabile, poiché i BRICS non soddisfano le precondizioni per un’unione monetaria simile all’euro. Sebbene l’osservazione sia corretta, essa risulta fuori fuoco, dal momento che i sostenitori di una nuova valuta di riserva non hanno mai immaginato un progetto analogo a quello dell’euro, cioè destinato a soppiantare le valute nazionali o le banche centrali. Su questo punto, come indicato nella citazione del discorso di Lula, il Brasile è stato esplicito: una nuova valuta non sostituirebbe le monete nazionali, ma circolerebbe parallelamente ad esse.
In ogni caso, le la Dichiarazione di Kazan – approvata come sempre per consenso – è una base più che sufficiente per sviluppare ulteriormente le proposte attuali e lavorare alla loro implementazione negli anni a venire. Occorre però sottolineare un aspetto cruciale: le posizioni contrarie, come quelle dell’India, hanno un peso maggiore rispetto a quelle favorevoli, come il Brasile, e persino superiore a un’ipotetica convergenza di tutti gli altri membri. Questo paradosso deriva dal fatto che nel meccanismo decisionale basato sul consenso – adottato dai BRICS – ogni membro dispone di un potere di veto. In tale scenario, la posizione negativa prevale automaticamente, bloccando qualunque iniziativa anche quando è sostenuta da tutti gli altri.

