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Giacomo Gabellini
September 14, 2025
© Photo: Public domain

Lo scorso 5 settembre, «Politico» scriveva che la bozza della National Defense Strategy per il 2025, giunta sulla scrivania del segretario alla Difesa Pete Hegseth alla fine di agosto, attribuisce la priorità alla tutela degli interessi statunitensi nell’emisfero occidentale rispetto alla gestione della “minaccia cinese”.

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Lo scorso 5 settembre, «Politico» scriveva che la bozza della National Defense Strategy per il 2025, giunta sulla scrivania del segretario alla Difesa Pete Hegseth alla fine di agosto, attribuisce la priorità alla tutela degli interessi statunitensi nell’emisfero occidentale rispetto alla gestione della “minaccia cinese”.

Lo avrebbero confidato alla nota rivista ben tre funzionari statunitensi dotati di accesso al testo completo, in cui si delineano i contorni di un “ripiegamento strategico” in pieno stile che dovrebbe trovare riscontro anche in altri due documenti chiave di imminente pubblicazione. Vale a dire il Global Posture Review, che definisce il posizionamento delle forze militari statunitensi a livello planetario, e il Missile Defense Review, in cui si illustra la collocazione dei vari sistemi statunitensi di difesa aerea e si forniscono raccomandazioni circa il loro rischieramento.

Secondo le fonti raggiunte da «Politico», «i tre documenti saranno interconnessi in molti modi. Entrambi sottolineeranno la necessità di esortare gli alleati ad assumersi maggiori responsabilità per la propria sicurezza mentre gli Stati Uniti concentreranno gli sforzi in teatri di più stretta prossimità».

Significativamente, le rivelazioni formulate dalle “gole profonde” tratteggiano uno scenario già disegnato all’interno di un altro documento fondamentale, la User’s guide to restructuring the global trading system redatta dall’economista Stephen Miran, pubblicata lo scorso novembre dalla Hudson Bay Capital e assurta a testo di riferimento per l’amministrazione Trump. Nell’ottica di Miran, che l’attuale governo intende piazzare nel consiglio direttivo della Federal Reserve, Washington dovrebbe portare avanti una linea d’azione particolarmente aggressiva, che interconnetta politiche commerciali e sicurezza nazionale, avvalendosi anzitutto dei dazi come strumento di pressione nei confronti dei partner.

Nello specifico, l’economista pone l’accento sulla necessità di procedere con un innalzamento dell’aliquota tariffaria media universale al 10% (oltre tre volte quella precedente), ma attraverso l’applicazione di dazi cuciti su misura per ogni raggruppamento di Paesi, da definire sulla scorta di indicatori riguardanti non soltanto il commercio, ma anche la sicurezza nazionale. Occorre quindi valutare se lo Stato in oggetto applichi una politica tariffaria e non tariffaria discriminatoria nei confronti degli Stati Uniti; se supporti i tentativi della Cina di aggirare i dazi tramite la riesportazione; se favorisca l’elusione delle sanzioni da parte della Russia; se ottemperi ai suoi impegni in ambito Nato; se i suoi leader votino contro gli Stati Uniti in sede Onu, ecc.

L’entità del dazio da applicare a ogni scaglione verrebbe così a dipendere dal grado di allineamento dei Paesi che ne fanno parte ai dettami e agli interessi statunitensi, come chiarito da Scott Bessent già un semestre prima che Trump lo nominasse segretario al Tesoro. Miran suggerisce l’instaurazione di meccanismi premiali, che assicurino ai Paesi maggiormente inclini ad accogliere le istanze di Washington la possibilità di passare a una fascia tariffaria meno opprimente. Gli Stati più accomodanti otterranno tariffe inferiori e adeguate garanzie di sicurezza, a differenza di quelli recalcitranti che perderanno l’ombrello militare di Washington e saranno chiamati a sostenere l’onere dei dazi statunitensi attraverso la svalutazione monetaria. Nel suo studio, Miran non lascia adito a dubbi: «unire un muro tariffario a un ombrello di sicurezza è una strategia ad alto rischio, ma se funziona offre grandi vantaggi».

Lo si evince dagli accordi commerciali tremendamente penalizzanti imposti dall’amministrazione Trump a Giappone, Corea del Sud e Unione Europea. Intese che, come spiegato da Bessent in persona nel corso di una recente intervista televisiva, impegnano le controparti a riciclare gran parte dei surplus accumulati mediante l’export verso gli Usa in investimenti in aziende statunitensi. I capitali in entrata, ha affermato Bessent, andranno a costituire una sorta di “fondo sovrano” a cui il governo attingerà per promuovere la reindustrializzazione del Paese focalizzata quantomeno nei settori critici. Il segretario al Tesoro parla esplicitamente della necessità di promuovere il “de-risking” dell’economia statunitense, colmando le lacune in materia di approvvigionamento e produzione emerse plasticamente durante la crisi pandemica.

Ne consegue che, qualora trovassero conferma in documenti ufficiali, le indiscrezioni riportate da «Politico» andrebbero a delineare un radicale cambiamento di rotta rispetto alle traiettorie strategiche seguite dagli Stati Uniti nell’ultimo quindicennio, sotto governi sia democratici che repubblicani.

Compreso quello guidato dallo stesso Trump tra il 2017 e il 2021, la cui National Defense Strategy collocava la deterrenza contro la Cina in cima alla scala delle priorità del Pentagono.

Elbridge Colby, coautore della National Defense Strategy per il 2018 e principale artefice della bozza descritta da «Politico», sembra quindi aver abbandonato il suo tradizionale approccio sino-centrico per approdare alle posizioni sposate dal vicepresidente Jd Vance, che intende ridurre drasticamente l’esposizione militare e geostrategica degli Stati Uniti. «I tradizionali impegni assunti dagli Stati Uniti vengono ora messi in discussione», avrebbe riferito una delle tre fonti interpellate da «Politico».

La realizzazione del mutamento d’approccio previsto dal documento menzionato da «Politico» è inesorabilmente destinata a suscitare pesanti reazioni in seno alle compagini neoconservatrici e sinofobiche incistate in entrambe le principali forze politiche, ma sembra ispirare diverse prese di posizione e provvedimenti concreti dell’amministrazione Trump. A partire dalle rivendicazioni su Groenlandia e Panama; dalle ambizioni annessioniste nei confronti del Canada; dalla mobilitazione della Guardia Nazionale a sostegno delle forze dell’ordine a Washington e Los Angeles; dalla militarizzazione del confine con il Messico; dallo schieramento di navi da guerra e caccia F-35 nei Caraibi e al largo delle coste venezuelane con lo scopo ufficiale di combattere il narcotraffico; dal taglio dei fondi previsti dal programma di sostegno militare ai Paesi baltici.

Segno che il fulcro degli sforzi statunitensi sta spostandosi verso l’emisfero occidentale, conformemente a una riformulazione della Dottrina Monroe di cui la bozza della National Defense Strategy giunta per vie traverse a «Politico» evidenzia gli aspetti fondamentali.

L’amministrazione Trump riscopre la Dottrina Monroe

Lo scorso 5 settembre, «Politico» scriveva che la bozza della National Defense Strategy per il 2025, giunta sulla scrivania del segretario alla Difesa Pete Hegseth alla fine di agosto, attribuisce la priorità alla tutela degli interessi statunitensi nell’emisfero occidentale rispetto alla gestione della “minaccia cinese”.

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Lo scorso 5 settembre, «Politico» scriveva che la bozza della National Defense Strategy per il 2025, giunta sulla scrivania del segretario alla Difesa Pete Hegseth alla fine di agosto, attribuisce la priorità alla tutela degli interessi statunitensi nell’emisfero occidentale rispetto alla gestione della “minaccia cinese”.

Lo avrebbero confidato alla nota rivista ben tre funzionari statunitensi dotati di accesso al testo completo, in cui si delineano i contorni di un “ripiegamento strategico” in pieno stile che dovrebbe trovare riscontro anche in altri due documenti chiave di imminente pubblicazione. Vale a dire il Global Posture Review, che definisce il posizionamento delle forze militari statunitensi a livello planetario, e il Missile Defense Review, in cui si illustra la collocazione dei vari sistemi statunitensi di difesa aerea e si forniscono raccomandazioni circa il loro rischieramento.

Secondo le fonti raggiunte da «Politico», «i tre documenti saranno interconnessi in molti modi. Entrambi sottolineeranno la necessità di esortare gli alleati ad assumersi maggiori responsabilità per la propria sicurezza mentre gli Stati Uniti concentreranno gli sforzi in teatri di più stretta prossimità».

Significativamente, le rivelazioni formulate dalle “gole profonde” tratteggiano uno scenario già disegnato all’interno di un altro documento fondamentale, la User’s guide to restructuring the global trading system redatta dall’economista Stephen Miran, pubblicata lo scorso novembre dalla Hudson Bay Capital e assurta a testo di riferimento per l’amministrazione Trump. Nell’ottica di Miran, che l’attuale governo intende piazzare nel consiglio direttivo della Federal Reserve, Washington dovrebbe portare avanti una linea d’azione particolarmente aggressiva, che interconnetta politiche commerciali e sicurezza nazionale, avvalendosi anzitutto dei dazi come strumento di pressione nei confronti dei partner.

Nello specifico, l’economista pone l’accento sulla necessità di procedere con un innalzamento dell’aliquota tariffaria media universale al 10% (oltre tre volte quella precedente), ma attraverso l’applicazione di dazi cuciti su misura per ogni raggruppamento di Paesi, da definire sulla scorta di indicatori riguardanti non soltanto il commercio, ma anche la sicurezza nazionale. Occorre quindi valutare se lo Stato in oggetto applichi una politica tariffaria e non tariffaria discriminatoria nei confronti degli Stati Uniti; se supporti i tentativi della Cina di aggirare i dazi tramite la riesportazione; se favorisca l’elusione delle sanzioni da parte della Russia; se ottemperi ai suoi impegni in ambito Nato; se i suoi leader votino contro gli Stati Uniti in sede Onu, ecc.

L’entità del dazio da applicare a ogni scaglione verrebbe così a dipendere dal grado di allineamento dei Paesi che ne fanno parte ai dettami e agli interessi statunitensi, come chiarito da Scott Bessent già un semestre prima che Trump lo nominasse segretario al Tesoro. Miran suggerisce l’instaurazione di meccanismi premiali, che assicurino ai Paesi maggiormente inclini ad accogliere le istanze di Washington la possibilità di passare a una fascia tariffaria meno opprimente. Gli Stati più accomodanti otterranno tariffe inferiori e adeguate garanzie di sicurezza, a differenza di quelli recalcitranti che perderanno l’ombrello militare di Washington e saranno chiamati a sostenere l’onere dei dazi statunitensi attraverso la svalutazione monetaria. Nel suo studio, Miran non lascia adito a dubbi: «unire un muro tariffario a un ombrello di sicurezza è una strategia ad alto rischio, ma se funziona offre grandi vantaggi».

Lo si evince dagli accordi commerciali tremendamente penalizzanti imposti dall’amministrazione Trump a Giappone, Corea del Sud e Unione Europea. Intese che, come spiegato da Bessent in persona nel corso di una recente intervista televisiva, impegnano le controparti a riciclare gran parte dei surplus accumulati mediante l’export verso gli Usa in investimenti in aziende statunitensi. I capitali in entrata, ha affermato Bessent, andranno a costituire una sorta di “fondo sovrano” a cui il governo attingerà per promuovere la reindustrializzazione del Paese focalizzata quantomeno nei settori critici. Il segretario al Tesoro parla esplicitamente della necessità di promuovere il “de-risking” dell’economia statunitense, colmando le lacune in materia di approvvigionamento e produzione emerse plasticamente durante la crisi pandemica.

Ne consegue che, qualora trovassero conferma in documenti ufficiali, le indiscrezioni riportate da «Politico» andrebbero a delineare un radicale cambiamento di rotta rispetto alle traiettorie strategiche seguite dagli Stati Uniti nell’ultimo quindicennio, sotto governi sia democratici che repubblicani.

Compreso quello guidato dallo stesso Trump tra il 2017 e il 2021, la cui National Defense Strategy collocava la deterrenza contro la Cina in cima alla scala delle priorità del Pentagono.

Elbridge Colby, coautore della National Defense Strategy per il 2018 e principale artefice della bozza descritta da «Politico», sembra quindi aver abbandonato il suo tradizionale approccio sino-centrico per approdare alle posizioni sposate dal vicepresidente Jd Vance, che intende ridurre drasticamente l’esposizione militare e geostrategica degli Stati Uniti. «I tradizionali impegni assunti dagli Stati Uniti vengono ora messi in discussione», avrebbe riferito una delle tre fonti interpellate da «Politico».

La realizzazione del mutamento d’approccio previsto dal documento menzionato da «Politico» è inesorabilmente destinata a suscitare pesanti reazioni in seno alle compagini neoconservatrici e sinofobiche incistate in entrambe le principali forze politiche, ma sembra ispirare diverse prese di posizione e provvedimenti concreti dell’amministrazione Trump. A partire dalle rivendicazioni su Groenlandia e Panama; dalle ambizioni annessioniste nei confronti del Canada; dalla mobilitazione della Guardia Nazionale a sostegno delle forze dell’ordine a Washington e Los Angeles; dalla militarizzazione del confine con il Messico; dallo schieramento di navi da guerra e caccia F-35 nei Caraibi e al largo delle coste venezuelane con lo scopo ufficiale di combattere il narcotraffico; dal taglio dei fondi previsti dal programma di sostegno militare ai Paesi baltici.

Segno che il fulcro degli sforzi statunitensi sta spostandosi verso l’emisfero occidentale, conformemente a una riformulazione della Dottrina Monroe di cui la bozza della National Defense Strategy giunta per vie traverse a «Politico» evidenzia gli aspetti fondamentali.

Lo scorso 5 settembre, «Politico» scriveva che la bozza della National Defense Strategy per il 2025, giunta sulla scrivania del segretario alla Difesa Pete Hegseth alla fine di agosto, attribuisce la priorità alla tutela degli interessi statunitensi nell’emisfero occidentale rispetto alla gestione della “minaccia cinese”.

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Lo scorso 5 settembre, «Politico» scriveva che la bozza della National Defense Strategy per il 2025, giunta sulla scrivania del segretario alla Difesa Pete Hegseth alla fine di agosto, attribuisce la priorità alla tutela degli interessi statunitensi nell’emisfero occidentale rispetto alla gestione della “minaccia cinese”.

Lo avrebbero confidato alla nota rivista ben tre funzionari statunitensi dotati di accesso al testo completo, in cui si delineano i contorni di un “ripiegamento strategico” in pieno stile che dovrebbe trovare riscontro anche in altri due documenti chiave di imminente pubblicazione. Vale a dire il Global Posture Review, che definisce il posizionamento delle forze militari statunitensi a livello planetario, e il Missile Defense Review, in cui si illustra la collocazione dei vari sistemi statunitensi di difesa aerea e si forniscono raccomandazioni circa il loro rischieramento.

Secondo le fonti raggiunte da «Politico», «i tre documenti saranno interconnessi in molti modi. Entrambi sottolineeranno la necessità di esortare gli alleati ad assumersi maggiori responsabilità per la propria sicurezza mentre gli Stati Uniti concentreranno gli sforzi in teatri di più stretta prossimità».

Significativamente, le rivelazioni formulate dalle “gole profonde” tratteggiano uno scenario già disegnato all’interno di un altro documento fondamentale, la User’s guide to restructuring the global trading system redatta dall’economista Stephen Miran, pubblicata lo scorso novembre dalla Hudson Bay Capital e assurta a testo di riferimento per l’amministrazione Trump. Nell’ottica di Miran, che l’attuale governo intende piazzare nel consiglio direttivo della Federal Reserve, Washington dovrebbe portare avanti una linea d’azione particolarmente aggressiva, che interconnetta politiche commerciali e sicurezza nazionale, avvalendosi anzitutto dei dazi come strumento di pressione nei confronti dei partner.

Nello specifico, l’economista pone l’accento sulla necessità di procedere con un innalzamento dell’aliquota tariffaria media universale al 10% (oltre tre volte quella precedente), ma attraverso l’applicazione di dazi cuciti su misura per ogni raggruppamento di Paesi, da definire sulla scorta di indicatori riguardanti non soltanto il commercio, ma anche la sicurezza nazionale. Occorre quindi valutare se lo Stato in oggetto applichi una politica tariffaria e non tariffaria discriminatoria nei confronti degli Stati Uniti; se supporti i tentativi della Cina di aggirare i dazi tramite la riesportazione; se favorisca l’elusione delle sanzioni da parte della Russia; se ottemperi ai suoi impegni in ambito Nato; se i suoi leader votino contro gli Stati Uniti in sede Onu, ecc.

L’entità del dazio da applicare a ogni scaglione verrebbe così a dipendere dal grado di allineamento dei Paesi che ne fanno parte ai dettami e agli interessi statunitensi, come chiarito da Scott Bessent già un semestre prima che Trump lo nominasse segretario al Tesoro. Miran suggerisce l’instaurazione di meccanismi premiali, che assicurino ai Paesi maggiormente inclini ad accogliere le istanze di Washington la possibilità di passare a una fascia tariffaria meno opprimente. Gli Stati più accomodanti otterranno tariffe inferiori e adeguate garanzie di sicurezza, a differenza di quelli recalcitranti che perderanno l’ombrello militare di Washington e saranno chiamati a sostenere l’onere dei dazi statunitensi attraverso la svalutazione monetaria. Nel suo studio, Miran non lascia adito a dubbi: «unire un muro tariffario a un ombrello di sicurezza è una strategia ad alto rischio, ma se funziona offre grandi vantaggi».

Lo si evince dagli accordi commerciali tremendamente penalizzanti imposti dall’amministrazione Trump a Giappone, Corea del Sud e Unione Europea. Intese che, come spiegato da Bessent in persona nel corso di una recente intervista televisiva, impegnano le controparti a riciclare gran parte dei surplus accumulati mediante l’export verso gli Usa in investimenti in aziende statunitensi. I capitali in entrata, ha affermato Bessent, andranno a costituire una sorta di “fondo sovrano” a cui il governo attingerà per promuovere la reindustrializzazione del Paese focalizzata quantomeno nei settori critici. Il segretario al Tesoro parla esplicitamente della necessità di promuovere il “de-risking” dell’economia statunitense, colmando le lacune in materia di approvvigionamento e produzione emerse plasticamente durante la crisi pandemica.

Ne consegue che, qualora trovassero conferma in documenti ufficiali, le indiscrezioni riportate da «Politico» andrebbero a delineare un radicale cambiamento di rotta rispetto alle traiettorie strategiche seguite dagli Stati Uniti nell’ultimo quindicennio, sotto governi sia democratici che repubblicani.

Compreso quello guidato dallo stesso Trump tra il 2017 e il 2021, la cui National Defense Strategy collocava la deterrenza contro la Cina in cima alla scala delle priorità del Pentagono.

Elbridge Colby, coautore della National Defense Strategy per il 2018 e principale artefice della bozza descritta da «Politico», sembra quindi aver abbandonato il suo tradizionale approccio sino-centrico per approdare alle posizioni sposate dal vicepresidente Jd Vance, che intende ridurre drasticamente l’esposizione militare e geostrategica degli Stati Uniti. «I tradizionali impegni assunti dagli Stati Uniti vengono ora messi in discussione», avrebbe riferito una delle tre fonti interpellate da «Politico».

La realizzazione del mutamento d’approccio previsto dal documento menzionato da «Politico» è inesorabilmente destinata a suscitare pesanti reazioni in seno alle compagini neoconservatrici e sinofobiche incistate in entrambe le principali forze politiche, ma sembra ispirare diverse prese di posizione e provvedimenti concreti dell’amministrazione Trump. A partire dalle rivendicazioni su Groenlandia e Panama; dalle ambizioni annessioniste nei confronti del Canada; dalla mobilitazione della Guardia Nazionale a sostegno delle forze dell’ordine a Washington e Los Angeles; dalla militarizzazione del confine con il Messico; dallo schieramento di navi da guerra e caccia F-35 nei Caraibi e al largo delle coste venezuelane con lo scopo ufficiale di combattere il narcotraffico; dal taglio dei fondi previsti dal programma di sostegno militare ai Paesi baltici.

Segno che il fulcro degli sforzi statunitensi sta spostandosi verso l’emisfero occidentale, conformemente a una riformulazione della Dottrina Monroe di cui la bozza della National Defense Strategy giunta per vie traverse a «Politico» evidenzia gli aspetti fondamentali.

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