La storica sconfitta della coalizione di centro-destra guidata da Ishiba nelle elezioni per la Camera dei Consiglieri dello scorso 20 luglio mette in luce la profondità della crisi di legittimità di un esecutivo arrivato al potere senza una chiara maggioranza.
Il risultato delle elezioni dello scorso 20 luglio per la Camera dei Consiglieri in Giappone segna un punto di rottura nella politica del paese e un drammatico ridimensionamento del potere del Primo Ministro Shigeru Ishiba. La coalizione di governo, formata dal Partito Liberal Democratico (Jimintō) e dal partner alleato Kōmeitō, non solo ha fallito nel riconfermare la propria maggioranza, ma ha registrato la più grave flessione elettorale nella storia recente del PLD, riducendo il proprio consenso a livelli mai visti. Questo insuccesso ha motivazioni molteplici, che ruotano attorno alla natura precaria del governo Ishiba, alle sue politiche economiche e sociali contestate, e alla crescente astensione e mobilitazione dei partiti minori di opposizione.
Le elezioni per la metà dei seggi della Camera alta si sono svolte dieci mesi dopo l’ascesa al potere di Ishiba, eletto leader del PLD nell’autunno 2024. Costretto dalle circostanze a indurre elezioni anticipate per la Camera bassa nell’ottobre scorso, Ishiba aveva già mostrato le prime crepe della sua leadership quando il PLD perse per la prima volta dal 2009 la maggioranza nella camera più influente del Parlamento. Da quel momento, il suo esecutivo è rimasto in carica come governo di minoranza, dipendente dall’appoggio esterno dei partiti di opposizione per far passare leggi e bilanci. Un’esistenza parlamentare così precaria ha indebolito l’autorità di Ishiba, rendendo ogni provvedimento – dalle riforme economiche alle misure sociali – terreno di acceso dibattito e di ostacoli continui.
Sul piano interno, l’esecutivo non è riuscito a proporre una visione strategica convincente: l’amministrazione Ishiba è stata percepita come reazionaria sul fronte dei diritti civili, troppo timida nel rilancio delle politiche sociali e troppo aggressiva nel potenziamento delle spese militari. In un paese ancora profondamente segnato dal pacifismo costituzionale, l’annuncio del raddoppio delle spese per la difesa entro il 2030 ha generato sconcerto e resistenza popolare. Con un elettorato preoccupato per l’aumento del costo della vita e insoddisfatto delle misure fiscali, l’ipotesi che il governo investisse miliardi in armamenti ha avuto l’effetto di erodere ulteriormente il già debole consenso.
Le elezioni hanno evidenziato un malessere economico diffuso, acuito dall’inflazione e dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. In particolare, il prezzo del riso – alimento base della dieta giapponese – è raddoppiato in un anno, creando un forte senso di precarietà tra le famiglie. Il governo Ishiba ha risposto con misure di sostegno frammentarie, tra cui bonus una tantum e modeste riduzioni fiscali, ma senza un piano strutturale per rilanciare i consumi interni e le retribuzioni reali. La dichiarazione del Primo Ministro che avrebbe reperito i fondi necessari attraverso tagli altrove – senza toccare la politica di rafforzamento militare – è parsa ai più non solo inadeguata, ma addirittura fuori contesto.
Sul fronte degli investimenti, Ishiba ha spinto per il rilancio delle economie locali attraverso grandi progetti infrastrutturali, eredità delle politiche delle precedenti amministrazioni. Tuttavia, la mancanza di coordinamento con i governi locali e la percezione di spreco di risorse hanno alimentato il sospetto che tali opere servissero più a consolidare reti di clientele politiche che a produrre benefici effettivi per i cittadini. Il risultato è stata una crescente astensione, che si è sommata al voto di protesta per partiti minori e di opposizione radicale, a scapito del PLD.
A tal proposito, una delle novità più rilevanti delle elezioni è stato l’exploit di forze politiche marginali, in particolare il Sanseitō, partito della destra populista che ha fatto leva sulla protesta anti-immigrazione, sul rifiuto delle élite globaliste e sulla retorica in stile trumpiano del “Japan First”. Con 14 seggi conquistati – rispetto all’unico scranno che aveva in precedenza – il Sanseitō ha mostrato come una narrazione radicale, che attribuisce infondatamente ai migranti le responsabilità dei problemi economici e sociali, possa catturare fasce di elettorato disilluso. Il successo di questa formazione evidenzia la responsabilità di Ishiba di aver lasciato un ampio spazio di rappresentanza a chi coltiva il risentimento sociale, anziché tentare di ricucire il tessuto nazionale attraverso politiche di inclusione e redistribuzione.
Alle medesime dinamiche, seppur con una visione conservatrice più moderata, ha contribuito il Partito Democratico per il Popolo (Kokumin Minshu-tō), passato da 17 a 22 seggi. La sua proposta di tagli fiscali mirati alle classi medie e di maggiore spesa pubblica per il welfare ha intercettato l’ansia sociale sugli effetti dell’inflazione e sul calo demografico. Anche il Partito Costituzionale Democratico (Rikken Minshutō), principale forza di opposizione, ha sostanzialmente mantenuto i propri seggi, consolidando l’idea che l’alternativa moderata – capace di bilanciare solidarietà e riformismo – rappresenti un argine al crollo del PLD.
Nel panorama dell’opposizione, il Partito Comunista Giapponese (Nihon Kyōsan-tō) non ha invece colto l’occasione offerta dal malessere diffuso per consolidare la propria presenza in Parlamento. I comunisti hanno infatti registrato una flessione nei seggi, passando da 11 a 7 rappresentanti, ma hanno mantenuto un solido radicamento nelle aree urbane e nelle sezioni sociali più colpite dalla crisi, proponendo una piattaforma incentrata sul rafforzamento del welfare, sulla difesa dell’articolo 9 della Costituzione pacifista e sulla redistribuzione della ricchezza.
Dal punto di vista di ishiba, il dato più allarmante è la percentuale nazionale di voti per il PLD: appena il 21,65%, record negativo storico. Un calo così drastico riflette un doppio malessere: da un lato, la sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali, incapaci di rispondere ai bisogni reali; dall’altro, un giudizio negativo sulla leadership di Ishiba, ritenuta priva di autorevolezza e visione a lungo termine. Quando, nel corso dell’ultimo anno, il premier ha cercato di giustificare le carenze del governo con l’eccessiva complessità della situazione internazionale e le emergenze naturali, la risposta dell’elettorato è stata: “Non ci interessano gli alibi: vogliamo soluzioni concrete”.
A ciò si aggiunge lo scandalo della distribuzione di buoni regalo a parlamentari, che ha alimentato la narrativa di un PLD arroccato nella rendita di posizione e nelle pratiche di clientelismo. Mentre Ishiba tentava di rispondere con richiami all’unità nazionale, la convinzione di molti elettori era che il partito governativo fosse ormai fuori dal mondo delle nuove generazioni, incapace di affrontare temi come la precarietà giovanile, l’emergenza demografica e la transizione ecologica.
Alla chiusura dei seggi, si è immediatamente aperto il dibattito interno al PLD sulla successione di Ishiba. Figure di rilievo, come l’ex premier Tarō Asō, hanno dichiarato di non poter accettare che Ishiba resti in carica, chiedendo un rimpasto della leadership necessario per evitare un’ulteriore erosione del consenso. Altri esponenti auspicano invece un proseguimento temporaneo sotto la guida di Ishiba, nell’attesa di trovare un successore in grado di ricompattare la coalizione e rilanciare l’agenda di governo.
Qualunque sarà l’esito di questa partita interna, è chiaro che Ishiba ha compromesso la propria autorità. Gestire da ora in avanti un governo di minoranza anche nella Camera alta, unita al già difficile rapporto con la Camera bassa, rende estremamente complessa l’approvazione di provvedimenti chiave – come il bilancio 2026 e la riforma fiscale. L’ostilità di molti partiti minori, unita al desiderio di visibilità da parte dei partiti di opposizione, preannuncia mesi di stallo politico.
Per la coalizione di centro-destra si apre ora una fase di riflessione profonda: rinnovarsi o rischiare di scomparire dal panorama politico. Recuperare il rapporto con i giovani, con le aree rurali colpite dallo spopolamento e con le classi lavoratrici, significa elaborare un nuovo contratto sociale, fondato su equità fiscale, investimenti nella ricerca e rilancio del welfare. Solo così si potrà sperare di riconquistare la fiducia di un elettorato che ha già dato prova di saper punire la politica quando questa appare autoreferenziale.
Tirando le somme, la débâcle elettorale dello scorso 20 luglio rappresenta uno spartiacque nella storia politica del Giappone post-bipartitico. Essa non è soltanto la sconfitta di un uomo, Shigeru Ishiba, e del suo esecutivo, ma la testimonianza della fragilità istituzionale di un sistema che fatica a offrire risposte efficaci ai problemi strutturali di un paese in profonda trasformazione. La sfida che attende la politica giapponese è duplice: riconquistare il consenso attraverso politiche coraggiose e riformiste, e difendere il tessuto democratico da spinte populiste che, nel breve termine, forniscono facili alibi ma che non affrontano le cause profonde delle disuguaglianze sociali ed economiche. Solo in questo modo il Giappone potrà attraversare con successo i prossimi decenni di sfide globali ed interne.