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Giacomo Gabellini
June 7, 2025
© Photo: Public domain

Dazi come tasse: Trump punta sulle tariffe per aumentare le entrate fiscali e fugare i dubbi sulla tenuta di economia Usa e dollaro

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Verso la fine di maggio, si è assistito a un aumento alquanto significativo del prezzo dei Credit Default Swap (Cds) sul debito federale statunitense. Allo stesso tempo, l’indice del dollaro è tornato a scendere precipitosamente, in parallelo alla crescita dei rendimenti sui Treasury Bond (compresi quelli a 30 anni).

Segno che un quota sempre più considerevole degli operatori di mercato diffida in misura crescente della capacità degli Stati Uniti di richiamare dall’estero capitali sufficienti a coprire il fabbisogno interno, attribuendo credibilità al tipo di scenario caratterizzato dalla bancarotta degli Usa, alla luce – in primo luogo – dell’espansione apparentemente inarrestabile della massa debitoria gravante sulla nazione. Alla fine del primo trimestre del 2025, il debito aveva raggiunto quota 36,2 trilioni di dollari, a fronte dei 23,2 trilioni registrati nello stesso periodo del 2020, mentre la posizione finanziaria netta è peggiorata nell’arco di un trimestre di oltre 2 trilioni di dollari, per un passivo pari a 26,2 trilioni.

Il deficit di bilancio è salito a oltre 1,3 trilioni di dollari nella prima metà dell’anno fiscale 2025 (da ottobre a marzo), per effetto di un incremento combinato delle spese legate a Difesa, previdenza sociale, Medicare-Medicaid e, soprattutto, servizio degli interessi sul debito. Una voce, quest’ultima, che assorbe ormai in pianta stabile qualcosa come 1,1 trilioni di dollari per trimestre, in conseguenza della prassi adottata dall’amministrazione Biden consistente nel collocamento di titoli a breve scadenza al fine di preservare il ruolo di “porto sicuro” di cui quelli a 20 e 30 anni sono tradizionalmente titolari. Nei primi tre mesi del 2025, la spesa era incrementata di 139 miliardi di dollari su base annua, mentre ad aprile la situazione è migliorata per effetto dell’incremento vertiginoso delle entrate fiscali, trainato dai dazi imposti dal presidente Trump all’inizio del mese.

La necessità di aumentare le entrate tributarie è destinata a farsi maggiormente impellente, alla luce dell’«One big beautiful bill», il disegno di legge presentato dall’amministrazione Trump comprensivo di tagli delle tasse per circa 4.000 miliardi e riduzioni della spesa pubblica pari a 1.500 miliardi approvato dalla Camera a maggio. Una misura destinata inesorabilmente a ingigantire ulteriormente il debito federale statunitense, come si evince dalle stime formulate dal Committee for a Responsible Federal Budget e dal Penn Wharton Budget Model. Il deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie ha votato contro il provvedimento, definendolo una «bomba debitoria a tempo».

È in questo contesto che si inserisce la risalita dei Cds sul debito federale statunitense, frutto di una manovra speculativa destinata inesorabilmente ad appesantire ulteriormente le pressioni al rialzo sui tassi di interesse. Di qui la necessità impellente di incrementare le entrate fiscali, che Trump sta cercando di soddisfare attraverso la reintroduzione delle tariffe. Dal 4 giugno, non a caso, è entrato in vigore l’ordine esecutivo – firmato nonostante le deliberazioni contrastanti riguardo alla sua legittimità formulate da due tribunali statunitensi – che impone dazi del 50% sulle importazioni di alluminio e acciaio (per un controvalore di quasi 115 miliardi di dollari), in attesa che scada la “tregua tariffaria” dichiarata ad aprile per contenere l’impatto devastante del cosiddetto “Liberation Day”. I dazi – quasi – a 360 gradi imposti quel giorno da Trump rappresentavano, come sottolineato da Jp Morgan Chase, il più grande aumento delle tasse dai tempi del Revenue and Expenditure Control Act del 1968, implicante una sovrattassa del 10% sulle imposte sul reddito delle persone fisiche e delle aziende in un’ottica di contenimento dell’inflazione e riduzione del deficit di bilancio, che era cresciuto enormemente per le implicazioni della Guerra del Vietnam. Allo stesso modo, il ripristino di una politica tariffaria paragonabile per entità a quello varata in occasione del “Liberation Day” renderebbe i dazi l’elemento chiave di una più ampia manovra di consolidamento fiscale “non convenzionale”. Una “cura da cavallo” a spese dei consumatori statunitensi, perché destinata a comprimere i consumi interni e incrementare le entrate tributarie in un’ottica di ridimensionamento del disavanzo pubblico, identificati come i passaggi cruciali per correggere il colossale squilibrio di bilancio e nei conti con l’estero. Il tutto nonostante i principali fattori di appesantimento della posizione deficitaria Usa risiedano nelle iperboliche spese militari, nella crescita incontrollata degli interessi sul debito e nella voragine fiscale scavata dai continui tagli delle tasse introdotti nel corso del tempo a beneficio delle fasce più abbienti della popolazione.

Dazi e situazione del bilancio degli Stati Uniti

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Verso la fine di maggio, si è assistito a un aumento alquanto significativo del prezzo dei Credit Default Swap (Cds) sul debito federale statunitense. Allo stesso tempo, l’indice del dollaro è tornato a scendere precipitosamente, in parallelo alla crescita dei rendimenti sui Treasury Bond (compresi quelli a 30 anni).

Segno che un quota sempre più considerevole degli operatori di mercato diffida in misura crescente della capacità degli Stati Uniti di richiamare dall’estero capitali sufficienti a coprire il fabbisogno interno, attribuendo credibilità al tipo di scenario caratterizzato dalla bancarotta degli Usa, alla luce – in primo luogo – dell’espansione apparentemente inarrestabile della massa debitoria gravante sulla nazione. Alla fine del primo trimestre del 2025, il debito aveva raggiunto quota 36,2 trilioni di dollari, a fronte dei 23,2 trilioni registrati nello stesso periodo del 2020, mentre la posizione finanziaria netta è peggiorata nell’arco di un trimestre di oltre 2 trilioni di dollari, per un passivo pari a 26,2 trilioni.

Il deficit di bilancio è salito a oltre 1,3 trilioni di dollari nella prima metà dell’anno fiscale 2025 (da ottobre a marzo), per effetto di un incremento combinato delle spese legate a Difesa, previdenza sociale, Medicare-Medicaid e, soprattutto, servizio degli interessi sul debito. Una voce, quest’ultima, che assorbe ormai in pianta stabile qualcosa come 1,1 trilioni di dollari per trimestre, in conseguenza della prassi adottata dall’amministrazione Biden consistente nel collocamento di titoli a breve scadenza al fine di preservare il ruolo di “porto sicuro” di cui quelli a 20 e 30 anni sono tradizionalmente titolari. Nei primi tre mesi del 2025, la spesa era incrementata di 139 miliardi di dollari su base annua, mentre ad aprile la situazione è migliorata per effetto dell’incremento vertiginoso delle entrate fiscali, trainato dai dazi imposti dal presidente Trump all’inizio del mese.

La necessità di aumentare le entrate tributarie è destinata a farsi maggiormente impellente, alla luce dell’«One big beautiful bill», il disegno di legge presentato dall’amministrazione Trump comprensivo di tagli delle tasse per circa 4.000 miliardi e riduzioni della spesa pubblica pari a 1.500 miliardi approvato dalla Camera a maggio. Una misura destinata inesorabilmente a ingigantire ulteriormente il debito federale statunitense, come si evince dalle stime formulate dal Committee for a Responsible Federal Budget e dal Penn Wharton Budget Model. Il deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie ha votato contro il provvedimento, definendolo una «bomba debitoria a tempo».

È in questo contesto che si inserisce la risalita dei Cds sul debito federale statunitense, frutto di una manovra speculativa destinata inesorabilmente ad appesantire ulteriormente le pressioni al rialzo sui tassi di interesse. Di qui la necessità impellente di incrementare le entrate fiscali, che Trump sta cercando di soddisfare attraverso la reintroduzione delle tariffe. Dal 4 giugno, non a caso, è entrato in vigore l’ordine esecutivo – firmato nonostante le deliberazioni contrastanti riguardo alla sua legittimità formulate da due tribunali statunitensi – che impone dazi del 50% sulle importazioni di alluminio e acciaio (per un controvalore di quasi 115 miliardi di dollari), in attesa che scada la “tregua tariffaria” dichiarata ad aprile per contenere l’impatto devastante del cosiddetto “Liberation Day”. I dazi – quasi – a 360 gradi imposti quel giorno da Trump rappresentavano, come sottolineato da Jp Morgan Chase, il più grande aumento delle tasse dai tempi del Revenue and Expenditure Control Act del 1968, implicante una sovrattassa del 10% sulle imposte sul reddito delle persone fisiche e delle aziende in un’ottica di contenimento dell’inflazione e riduzione del deficit di bilancio, che era cresciuto enormemente per le implicazioni della Guerra del Vietnam. Allo stesso modo, il ripristino di una politica tariffaria paragonabile per entità a quello varata in occasione del “Liberation Day” renderebbe i dazi l’elemento chiave di una più ampia manovra di consolidamento fiscale “non convenzionale”. Una “cura da cavallo” a spese dei consumatori statunitensi, perché destinata a comprimere i consumi interni e incrementare le entrate tributarie in un’ottica di ridimensionamento del disavanzo pubblico, identificati come i passaggi cruciali per correggere il colossale squilibrio di bilancio e nei conti con l’estero. Il tutto nonostante i principali fattori di appesantimento della posizione deficitaria Usa risiedano nelle iperboliche spese militari, nella crescita incontrollata degli interessi sul debito e nella voragine fiscale scavata dai continui tagli delle tasse introdotti nel corso del tempo a beneficio delle fasce più abbienti della popolazione.

Dazi come tasse: Trump punta sulle tariffe per aumentare le entrate fiscali e fugare i dubbi sulla tenuta di economia Usa e dollaro

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Verso la fine di maggio, si è assistito a un aumento alquanto significativo del prezzo dei Credit Default Swap (Cds) sul debito federale statunitense. Allo stesso tempo, l’indice del dollaro è tornato a scendere precipitosamente, in parallelo alla crescita dei rendimenti sui Treasury Bond (compresi quelli a 30 anni).

Segno che un quota sempre più considerevole degli operatori di mercato diffida in misura crescente della capacità degli Stati Uniti di richiamare dall’estero capitali sufficienti a coprire il fabbisogno interno, attribuendo credibilità al tipo di scenario caratterizzato dalla bancarotta degli Usa, alla luce – in primo luogo – dell’espansione apparentemente inarrestabile della massa debitoria gravante sulla nazione. Alla fine del primo trimestre del 2025, il debito aveva raggiunto quota 36,2 trilioni di dollari, a fronte dei 23,2 trilioni registrati nello stesso periodo del 2020, mentre la posizione finanziaria netta è peggiorata nell’arco di un trimestre di oltre 2 trilioni di dollari, per un passivo pari a 26,2 trilioni.

Il deficit di bilancio è salito a oltre 1,3 trilioni di dollari nella prima metà dell’anno fiscale 2025 (da ottobre a marzo), per effetto di un incremento combinato delle spese legate a Difesa, previdenza sociale, Medicare-Medicaid e, soprattutto, servizio degli interessi sul debito. Una voce, quest’ultima, che assorbe ormai in pianta stabile qualcosa come 1,1 trilioni di dollari per trimestre, in conseguenza della prassi adottata dall’amministrazione Biden consistente nel collocamento di titoli a breve scadenza al fine di preservare il ruolo di “porto sicuro” di cui quelli a 20 e 30 anni sono tradizionalmente titolari. Nei primi tre mesi del 2025, la spesa era incrementata di 139 miliardi di dollari su base annua, mentre ad aprile la situazione è migliorata per effetto dell’incremento vertiginoso delle entrate fiscali, trainato dai dazi imposti dal presidente Trump all’inizio del mese.

La necessità di aumentare le entrate tributarie è destinata a farsi maggiormente impellente, alla luce dell’«One big beautiful bill», il disegno di legge presentato dall’amministrazione Trump comprensivo di tagli delle tasse per circa 4.000 miliardi e riduzioni della spesa pubblica pari a 1.500 miliardi approvato dalla Camera a maggio. Una misura destinata inesorabilmente a ingigantire ulteriormente il debito federale statunitense, come si evince dalle stime formulate dal Committee for a Responsible Federal Budget e dal Penn Wharton Budget Model. Il deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie ha votato contro il provvedimento, definendolo una «bomba debitoria a tempo».

È in questo contesto che si inserisce la risalita dei Cds sul debito federale statunitense, frutto di una manovra speculativa destinata inesorabilmente ad appesantire ulteriormente le pressioni al rialzo sui tassi di interesse. Di qui la necessità impellente di incrementare le entrate fiscali, che Trump sta cercando di soddisfare attraverso la reintroduzione delle tariffe. Dal 4 giugno, non a caso, è entrato in vigore l’ordine esecutivo – firmato nonostante le deliberazioni contrastanti riguardo alla sua legittimità formulate da due tribunali statunitensi – che impone dazi del 50% sulle importazioni di alluminio e acciaio (per un controvalore di quasi 115 miliardi di dollari), in attesa che scada la “tregua tariffaria” dichiarata ad aprile per contenere l’impatto devastante del cosiddetto “Liberation Day”. I dazi – quasi – a 360 gradi imposti quel giorno da Trump rappresentavano, come sottolineato da Jp Morgan Chase, il più grande aumento delle tasse dai tempi del Revenue and Expenditure Control Act del 1968, implicante una sovrattassa del 10% sulle imposte sul reddito delle persone fisiche e delle aziende in un’ottica di contenimento dell’inflazione e riduzione del deficit di bilancio, che era cresciuto enormemente per le implicazioni della Guerra del Vietnam. Allo stesso modo, il ripristino di una politica tariffaria paragonabile per entità a quello varata in occasione del “Liberation Day” renderebbe i dazi l’elemento chiave di una più ampia manovra di consolidamento fiscale “non convenzionale”. Una “cura da cavallo” a spese dei consumatori statunitensi, perché destinata a comprimere i consumi interni e incrementare le entrate tributarie in un’ottica di ridimensionamento del disavanzo pubblico, identificati come i passaggi cruciali per correggere il colossale squilibrio di bilancio e nei conti con l’estero. Il tutto nonostante i principali fattori di appesantimento della posizione deficitaria Usa risiedano nelle iperboliche spese militari, nella crescita incontrollata degli interessi sul debito e nella voragine fiscale scavata dai continui tagli delle tasse introdotti nel corso del tempo a beneficio delle fasce più abbienti della popolazione.

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