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Giacomo Gabellini
May 26, 2025
© Photo: Public domain

La posizione economica degli Stati Uniti continua a subire perdite mentre il ruolo del dollaro si sta gradualmente riducendo

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Lo scorso mercoledì 21 aggio, l’asta attraverso cui il Dipartimento del Tesoro pianificava di collocare Treasury Bond a scadenza ventennale per un controvalore di 16 miliardi di dollari si è risolta in un sostanziale insuccesso. L’atteggiamento improntato alla freddezza tenuto dagli investitori istituzionali ha obbligato il Tesoro a corrispondere interessi pari al 5,047% sui titoli per garantirne il piazzamento, intensificando le ulteriormente pressioni al rialzo sui rendimenti dei Treasury a 20 anni, saliti nelle ore successive a quota 5,128%, il livello più alto da novembre 2023. Anche gli interessi sui titoli a 10 anni e a 30 anni stanno disegnando una traiettoria ondivaga ma tendenzialmente ascendente, nonostante la recente “tregua tariffaria” raggiunta con la Cina. Un’intesa di massima culminata con l’abbassamento reciproco e provvisorio ( 90 giorni) delle tariffe – dal 145 al 30% gli Stati Uniti; dal 125 al 10% la Cina – e l’implementazione di un meccanismo di consultazione preposto al coordinamento dei negoziati. Poche ore dopo, Pechino aveva annunciato la revoca del provvedimento di durata mensile che proibiva alle compagnie aeree nazionali di prendere in consegna aerei fabbricati dalla Boeing.

L’effetto catalizzatore alla base della débâcle è dato dal declassamento operato il venerdì precedente da Moody’s, che ha sottratto la massima valutazione (AAA) al debito federale statunitense per la prima volta dal 1919 allineandosi ai pronunciamenti della stessa natura formalizzati da Standard & Poor’s (che declassò il debito Usa nel 2011) e Fitch (che declassò il debito Usa nel 2023). Vale a dire le grandi agenzie di rating controllate de facto dalla “triade” composta da BlackRock, Vanguard e State Street, protagonista di un conflitto senza esclusione di colpi con l’amministrazione Trump.

Il giudizio di Moody’s nasce dall’impressione che «la pur sussistente forza economica e finanziaria degli Usa non compensa più il declino dei parametri fiscali». Più specificamente, il debito federale, che nel quarto trimestre del 2024 ha varcato la soglia critica dei 36.000 miliardi di dollari, sta continuando a crescere vertiginosamente per effetto dell’incremento costante e apparentemente inarrestabile del deficit di bilancio, che nell’ottica dell’agenzia di rating continuerà ad aumentare «trainato principalmente dall’aumento degli oneri legati al pagamento degli interessi sul debito, dalla crescita della spesa per prestazioni sociali e da un livello relativamente basso di entrate fiscali». Moody’s evidenzia inoltre che «governi e Congresso hanno finora fallito nel concordare misure in grado di ridurre i disavanzi fiscali e il costo degli interessi», esprimendo per di più la convinzione che le misure messe in cantiere dall’amministrazione Trump aggraveranno sostanzialmente la situazione.

Il riferimento è al disegno di legge – definito da Trump in persona «One, big, beautiful bill» –  comprensivo di tagli delle tasse per circa 4.000 miliardi e riduzioni della spesa pubblica pari a 1.500 miliardi, che assai difficilmente si tradurrà in un ridimensionamento sostenibile del deficit di bilancio – prossimo attualmente al 6% del Pil (equivalente a circa 2.000 miliardi). Lo si evince dalle previsioni formulate sia da Moody’s, secondo cui il rapporto debito/Pil crescerà dal 98 al 134% tra il 2024 e il 2035, sia dal Committee for a Responsible Federal Budget, un think-tank apartitico convinto che il provvedimento concepito dal governo accrescerà il debito federale di ulteriori 3.800 miliardi di dollari, che potrebbero aumentare a 5.300 miliardi qualora il Congresso estendesse le disposizioni temporanee.

Il crescente passivo degli Stati Uniti, che si riflette nell’appesantimento del debito federale, del deficit di bilancio e della posizione finanziaria netta, va coniugandosi con l’“effetto boomerang” generato sulla credibilità degli Stati Uniti dalle sanzioni contro la Russia e dalla guerra commerciale scatenata dall’amministrazione Trump.  Nonché con la pesante eredità lasciata dal precedente governo a guida democratica, che ha aumentato a dismisura i collocamenti di titoli a breve scadenza in luogo di quelli a 20 e 30 anni al fine di preservare il ruolo di “porto sicuro” di cui questi ultimi sono tradizionalmente titolari. L’amministrazione Biden ha in altri termini puntato pesantemente sull’indebitamento a breve termine in un contesto di politiche restrittive – confacenti agli interessi oligopolistici della “triade” – portate avanti dalla Federal Reserve, con conseguente crescita astronomica della spesa per interessi e collocamento del Dipartimento del Tesoro nella condizione di rinnovare continuamente la montagna di titoli in scadenza.

Il risultato è coinciso con un pericoloso deterioramento della posizione internazionale della valuta statunitense, come certificato dall’apprezzamento dell’oro, dalla rivalutazione del franco svizzero e dalla caduta dell’indice del dollaro. Segno che una quota crescente del “capitale mobile”, alla continua ricerca di stabilità e remunerazione, tende a confluire verso i rivali storici del dollaro. Qualora il trend dovesse consolidarsi, come vaticinato da Max Gokhman di Franklin Templeton Investment Solutions, la curva dei rendimenti del debito statunitense continuerà a crescere, aumentando proporzionalmente gli oneri a carico del Dipartimento del Tesoro, intensificando la pressione sul dollaro e minando l’attrattività delle azioni statunitensi.

In questo quadro si inserisce il tour diplomatico che Trump, accompagnato dal gotha di Wall Street, della Silicon Valley e del complesso militar-industriale, ha realizzato nella penisola araba. La visita ha fruttato impegni di investimento da parte dei vertici istituzionali di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar per un ammontare di oltre 2.000 miliardi di dollari, a cui potrebbe andare a sommarsi la disponibilità di sauditi, emiratini e qatarioti ad affidare il colossale risparmio interno ai grandi gestori di cui si compone la “triade”. L’intesa acquisisce così le fattezze di un tentativo organizzato da Trump di stemperare le tensioni interne alla grande finanza statunitense e serrare i ranghi, cosicché BlackRock, Vanguard e State Street convoglino i capitali arabi verso il debito statunitense bilanciando o quantomeno attutendo i pesanti contraccolpi sortiti dal declassamento varato da Moody’s, che secondo Michael Schumacher e Angelo Manolatos di Wells Fargo si tradurranno in «un ulteriore incremento dei rendimenti tra i 5 e i 10 punti base dei Treasury a 10 e 30 anni». Ray Dalio, fondatore di Bridgewater Associates, ritiene che Moody’s abbia in realtà sottostimato i rischi potenziali per i titoli statunitensi. A suo avviso, sussiste la concreta possibilità che il governo federale si spinga a emettere moneta per onorare il servizio del debito, «causando così perdite ai detentori di obbligazioni a causa della svalutazione del denaro che ricevono anziché per una diminuzione della somma incassata». Il pericolo, in altri termini, è che governo e Federal Reserve raggiungano un’intesa per l’implementazione di misure ispirate ai programmi di Quantitative Easing attuati in due riprese da Dipartimento del Tesoro e Federal Reserve, parimenti destinate a sfociare in una depressione del corso del dollaro. Dall’incrocio dei dati relativi all’inflazione a quelli attestanti l’espansione della base monetaria emerge che, tra il 2015 e il 2025, il potere d’acquisto del dollaro ha registrato una caduta del 30%.

Un ulteriore affossamento potrebbe rivelarsi fatale.

La pressione sul dollaro continua a crescere

La posizione economica degli Stati Uniti continua a subire perdite mentre il ruolo del dollaro si sta gradualmente riducendo

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L’effetto catalizzatore alla base della débâcle è dato dal declassamento operato il venerdì precedente da Moody’s, che ha sottratto la massima valutazione (AAA) al debito federale statunitense per la prima volta dal 1919 allineandosi ai pronunciamenti della stessa natura formalizzati da Standard & Poor’s (che declassò il debito Usa nel 2011) e Fitch (che declassò il debito Usa nel 2023). Vale a dire le grandi agenzie di rating controllate de facto dalla “triade” composta da BlackRock, Vanguard e State Street, protagonista di un conflitto senza esclusione di colpi con l’amministrazione Trump.

Il giudizio di Moody’s nasce dall’impressione che «la pur sussistente forza economica e finanziaria degli Usa non compensa più il declino dei parametri fiscali». Più specificamente, il debito federale, che nel quarto trimestre del 2024 ha varcato la soglia critica dei 36.000 miliardi di dollari, sta continuando a crescere vertiginosamente per effetto dell’incremento costante e apparentemente inarrestabile del deficit di bilancio, che nell’ottica dell’agenzia di rating continuerà ad aumentare «trainato principalmente dall’aumento degli oneri legati al pagamento degli interessi sul debito, dalla crescita della spesa per prestazioni sociali e da un livello relativamente basso di entrate fiscali». Moody’s evidenzia inoltre che «governi e Congresso hanno finora fallito nel concordare misure in grado di ridurre i disavanzi fiscali e il costo degli interessi», esprimendo per di più la convinzione che le misure messe in cantiere dall’amministrazione Trump aggraveranno sostanzialmente la situazione.

Il riferimento è al disegno di legge – definito da Trump in persona «One, big, beautiful bill» –  comprensivo di tagli delle tasse per circa 4.000 miliardi e riduzioni della spesa pubblica pari a 1.500 miliardi, che assai difficilmente si tradurrà in un ridimensionamento sostenibile del deficit di bilancio – prossimo attualmente al 6% del Pil (equivalente a circa 2.000 miliardi). Lo si evince dalle previsioni formulate sia da Moody’s, secondo cui il rapporto debito/Pil crescerà dal 98 al 134% tra il 2024 e il 2035, sia dal Committee for a Responsible Federal Budget, un think-tank apartitico convinto che il provvedimento concepito dal governo accrescerà il debito federale di ulteriori 3.800 miliardi di dollari, che potrebbero aumentare a 5.300 miliardi qualora il Congresso estendesse le disposizioni temporanee.

Il crescente passivo degli Stati Uniti, che si riflette nell’appesantimento del debito federale, del deficit di bilancio e della posizione finanziaria netta, va coniugandosi con l’“effetto boomerang” generato sulla credibilità degli Stati Uniti dalle sanzioni contro la Russia e dalla guerra commerciale scatenata dall’amministrazione Trump.  Nonché con la pesante eredità lasciata dal precedente governo a guida democratica, che ha aumentato a dismisura i collocamenti di titoli a breve scadenza in luogo di quelli a 20 e 30 anni al fine di preservare il ruolo di “porto sicuro” di cui questi ultimi sono tradizionalmente titolari. L’amministrazione Biden ha in altri termini puntato pesantemente sull’indebitamento a breve termine in un contesto di politiche restrittive – confacenti agli interessi oligopolistici della “triade” – portate avanti dalla Federal Reserve, con conseguente crescita astronomica della spesa per interessi e collocamento del Dipartimento del Tesoro nella condizione di rinnovare continuamente la montagna di titoli in scadenza.

Il risultato è coinciso con un pericoloso deterioramento della posizione internazionale della valuta statunitense, come certificato dall’apprezzamento dell’oro, dalla rivalutazione del franco svizzero e dalla caduta dell’indice del dollaro. Segno che una quota crescente del “capitale mobile”, alla continua ricerca di stabilità e remunerazione, tende a confluire verso i rivali storici del dollaro. Qualora il trend dovesse consolidarsi, come vaticinato da Max Gokhman di Franklin Templeton Investment Solutions, la curva dei rendimenti del debito statunitense continuerà a crescere, aumentando proporzionalmente gli oneri a carico del Dipartimento del Tesoro, intensificando la pressione sul dollaro e minando l’attrattività delle azioni statunitensi.

In questo quadro si inserisce il tour diplomatico che Trump, accompagnato dal gotha di Wall Street, della Silicon Valley e del complesso militar-industriale, ha realizzato nella penisola araba. La visita ha fruttato impegni di investimento da parte dei vertici istituzionali di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar per un ammontare di oltre 2.000 miliardi di dollari, a cui potrebbe andare a sommarsi la disponibilità di sauditi, emiratini e qatarioti ad affidare il colossale risparmio interno ai grandi gestori di cui si compone la “triade”. L’intesa acquisisce così le fattezze di un tentativo organizzato da Trump di stemperare le tensioni interne alla grande finanza statunitense e serrare i ranghi, cosicché BlackRock, Vanguard e State Street convoglino i capitali arabi verso il debito statunitense bilanciando o quantomeno attutendo i pesanti contraccolpi sortiti dal declassamento varato da Moody’s, che secondo Michael Schumacher e Angelo Manolatos di Wells Fargo si tradurranno in «un ulteriore incremento dei rendimenti tra i 5 e i 10 punti base dei Treasury a 10 e 30 anni». Ray Dalio, fondatore di Bridgewater Associates, ritiene che Moody’s abbia in realtà sottostimato i rischi potenziali per i titoli statunitensi. A suo avviso, sussiste la concreta possibilità che il governo federale si spinga a emettere moneta per onorare il servizio del debito, «causando così perdite ai detentori di obbligazioni a causa della svalutazione del denaro che ricevono anziché per una diminuzione della somma incassata». Il pericolo, in altri termini, è che governo e Federal Reserve raggiungano un’intesa per l’implementazione di misure ispirate ai programmi di Quantitative Easing attuati in due riprese da Dipartimento del Tesoro e Federal Reserve, parimenti destinate a sfociare in una depressione del corso del dollaro. Dall’incrocio dei dati relativi all’inflazione a quelli attestanti l’espansione della base monetaria emerge che, tra il 2015 e il 2025, il potere d’acquisto del dollaro ha registrato una caduta del 30%.

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La posizione economica degli Stati Uniti continua a subire perdite mentre il ruolo del dollaro si sta gradualmente riducendo

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Lo scorso mercoledì 21 aggio, l’asta attraverso cui il Dipartimento del Tesoro pianificava di collocare Treasury Bond a scadenza ventennale per un controvalore di 16 miliardi di dollari si è risolta in un sostanziale insuccesso. L’atteggiamento improntato alla freddezza tenuto dagli investitori istituzionali ha obbligato il Tesoro a corrispondere interessi pari al 5,047% sui titoli per garantirne il piazzamento, intensificando le ulteriormente pressioni al rialzo sui rendimenti dei Treasury a 20 anni, saliti nelle ore successive a quota 5,128%, il livello più alto da novembre 2023. Anche gli interessi sui titoli a 10 anni e a 30 anni stanno disegnando una traiettoria ondivaga ma tendenzialmente ascendente, nonostante la recente “tregua tariffaria” raggiunta con la Cina. Un’intesa di massima culminata con l’abbassamento reciproco e provvisorio ( 90 giorni) delle tariffe – dal 145 al 30% gli Stati Uniti; dal 125 al 10% la Cina – e l’implementazione di un meccanismo di consultazione preposto al coordinamento dei negoziati. Poche ore dopo, Pechino aveva annunciato la revoca del provvedimento di durata mensile che proibiva alle compagnie aeree nazionali di prendere in consegna aerei fabbricati dalla Boeing.

L’effetto catalizzatore alla base della débâcle è dato dal declassamento operato il venerdì precedente da Moody’s, che ha sottratto la massima valutazione (AAA) al debito federale statunitense per la prima volta dal 1919 allineandosi ai pronunciamenti della stessa natura formalizzati da Standard & Poor’s (che declassò il debito Usa nel 2011) e Fitch (che declassò il debito Usa nel 2023). Vale a dire le grandi agenzie di rating controllate de facto dalla “triade” composta da BlackRock, Vanguard e State Street, protagonista di un conflitto senza esclusione di colpi con l’amministrazione Trump.

Il giudizio di Moody’s nasce dall’impressione che «la pur sussistente forza economica e finanziaria degli Usa non compensa più il declino dei parametri fiscali». Più specificamente, il debito federale, che nel quarto trimestre del 2024 ha varcato la soglia critica dei 36.000 miliardi di dollari, sta continuando a crescere vertiginosamente per effetto dell’incremento costante e apparentemente inarrestabile del deficit di bilancio, che nell’ottica dell’agenzia di rating continuerà ad aumentare «trainato principalmente dall’aumento degli oneri legati al pagamento degli interessi sul debito, dalla crescita della spesa per prestazioni sociali e da un livello relativamente basso di entrate fiscali». Moody’s evidenzia inoltre che «governi e Congresso hanno finora fallito nel concordare misure in grado di ridurre i disavanzi fiscali e il costo degli interessi», esprimendo per di più la convinzione che le misure messe in cantiere dall’amministrazione Trump aggraveranno sostanzialmente la situazione.

Il riferimento è al disegno di legge – definito da Trump in persona «One, big, beautiful bill» –  comprensivo di tagli delle tasse per circa 4.000 miliardi e riduzioni della spesa pubblica pari a 1.500 miliardi, che assai difficilmente si tradurrà in un ridimensionamento sostenibile del deficit di bilancio – prossimo attualmente al 6% del Pil (equivalente a circa 2.000 miliardi). Lo si evince dalle previsioni formulate sia da Moody’s, secondo cui il rapporto debito/Pil crescerà dal 98 al 134% tra il 2024 e il 2035, sia dal Committee for a Responsible Federal Budget, un think-tank apartitico convinto che il provvedimento concepito dal governo accrescerà il debito federale di ulteriori 3.800 miliardi di dollari, che potrebbero aumentare a 5.300 miliardi qualora il Congresso estendesse le disposizioni temporanee.

Il crescente passivo degli Stati Uniti, che si riflette nell’appesantimento del debito federale, del deficit di bilancio e della posizione finanziaria netta, va coniugandosi con l’“effetto boomerang” generato sulla credibilità degli Stati Uniti dalle sanzioni contro la Russia e dalla guerra commerciale scatenata dall’amministrazione Trump.  Nonché con la pesante eredità lasciata dal precedente governo a guida democratica, che ha aumentato a dismisura i collocamenti di titoli a breve scadenza in luogo di quelli a 20 e 30 anni al fine di preservare il ruolo di “porto sicuro” di cui questi ultimi sono tradizionalmente titolari. L’amministrazione Biden ha in altri termini puntato pesantemente sull’indebitamento a breve termine in un contesto di politiche restrittive – confacenti agli interessi oligopolistici della “triade” – portate avanti dalla Federal Reserve, con conseguente crescita astronomica della spesa per interessi e collocamento del Dipartimento del Tesoro nella condizione di rinnovare continuamente la montagna di titoli in scadenza.

Il risultato è coinciso con un pericoloso deterioramento della posizione internazionale della valuta statunitense, come certificato dall’apprezzamento dell’oro, dalla rivalutazione del franco svizzero e dalla caduta dell’indice del dollaro. Segno che una quota crescente del “capitale mobile”, alla continua ricerca di stabilità e remunerazione, tende a confluire verso i rivali storici del dollaro. Qualora il trend dovesse consolidarsi, come vaticinato da Max Gokhman di Franklin Templeton Investment Solutions, la curva dei rendimenti del debito statunitense continuerà a crescere, aumentando proporzionalmente gli oneri a carico del Dipartimento del Tesoro, intensificando la pressione sul dollaro e minando l’attrattività delle azioni statunitensi.

In questo quadro si inserisce il tour diplomatico che Trump, accompagnato dal gotha di Wall Street, della Silicon Valley e del complesso militar-industriale, ha realizzato nella penisola araba. La visita ha fruttato impegni di investimento da parte dei vertici istituzionali di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar per un ammontare di oltre 2.000 miliardi di dollari, a cui potrebbe andare a sommarsi la disponibilità di sauditi, emiratini e qatarioti ad affidare il colossale risparmio interno ai grandi gestori di cui si compone la “triade”. L’intesa acquisisce così le fattezze di un tentativo organizzato da Trump di stemperare le tensioni interne alla grande finanza statunitense e serrare i ranghi, cosicché BlackRock, Vanguard e State Street convoglino i capitali arabi verso il debito statunitense bilanciando o quantomeno attutendo i pesanti contraccolpi sortiti dal declassamento varato da Moody’s, che secondo Michael Schumacher e Angelo Manolatos di Wells Fargo si tradurranno in «un ulteriore incremento dei rendimenti tra i 5 e i 10 punti base dei Treasury a 10 e 30 anni». Ray Dalio, fondatore di Bridgewater Associates, ritiene che Moody’s abbia in realtà sottostimato i rischi potenziali per i titoli statunitensi. A suo avviso, sussiste la concreta possibilità che il governo federale si spinga a emettere moneta per onorare il servizio del debito, «causando così perdite ai detentori di obbligazioni a causa della svalutazione del denaro che ricevono anziché per una diminuzione della somma incassata». Il pericolo, in altri termini, è che governo e Federal Reserve raggiungano un’intesa per l’implementazione di misure ispirate ai programmi di Quantitative Easing attuati in due riprese da Dipartimento del Tesoro e Federal Reserve, parimenti destinate a sfociare in una depressione del corso del dollaro. Dall’incrocio dei dati relativi all’inflazione a quelli attestanti l’espansione della base monetaria emerge che, tra il 2015 e il 2025, il potere d’acquisto del dollaro ha registrato una caduta del 30%.

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