L’azione turca verso l’esterno viene spesso fraintesa (o non compresa) dagli analisti occidentali che spesso la bollano utilizzando in senso dispregiativo il termine “neo-ottomanesimo”. In questo contributo si cercherà invece di ricostruire la geopolitica turca (in dettaglio) dalla fondazione della Repubblica ad oggi.
Tendenzialmente si distinguono almeno sei diverse traiettorie nella politica estera turca dalla proclamazione della Repubblica (29 ottobre 1923) ad oggi. La prima è indubbiamente legata al modello nazional-kemalista la cui principale preoccupazione era quella di garantire sicurezza interna ed esterna lungo i confini tracciati dal Trattato di Losanna del 1923. Un evento che, di fatto, rafforzò il già ben avviato processo di “islamizzazione dell’Anatolia”, con l’arrivo sul territorio turco di musulmani dei Balcani e del Caucaso e la conseguente partenza di armeni (Anatolia orientale) e greci dell’Asia Minore e del Ponto. L’arrivo di una nuova massa di cittadini musulmani, tuttavia, strideva con le intenzioni dichiaratamente laiche del kemalismo. Il sultanato, responsabile del “tradimento” arrivato con il Trattato di Sevres, venne abolito nel 1922; mentre il califfato venne eliminato nel marzo del 1924.
L’idea di Mustafa Kemal era comunque quella di una Anatolia totalmente indipendente su base etnico-settaria, e di uno Stato che avrebbe dovuto fondarsi su sei principi guida: a) nazionalismo; b) repubblicanesimo; c) populismo; d) laicismo; e) statalismo; f) rivoluzionarismo. In altre parole, la Nazione avrebbe dovuto incarnarsi in una élite ristretta col preciso obiettivo di governare e orientare le masse e di rendere la società un corpo organico, unito e omogeneo. In questo senso, il kemalismo si presentava in linea con i modelli ideologici in voga nel medesimo periodo: il fascismo italiano ed il bolscevismo stalinista, in particolare. Con essi, infatti, condivideva l’idea di una nazionalizzazione delle masse attraverso l’educazione delle stesse (interessante, in questo caso, il celebre discorso di Nutuk in cui colui che assunse il nome di Ataturk presentò la lotta di liberazione contro l’espansionismo greco e delle potenze europee occidentali come un movimento per creare un “nuovo Stato turco”) e la totale appropriazione delle due forme antagoniste di violenza: la coercizione statale per affermare la piena autorità del governo centrale e la necessaria violenza ideologica rivoluzionaria per smantellare l’ordine preesistente. Dunque, non è errato affermare che il kemalismo avesse in sé sia elementi di “destra” che di “sinistra”. L’Unione Sovietica, inoltre, che fu fondamentale anche in termini di appoggio al movimento nazionalista turco (Mosca non poteva permettere che gli Stretti finissero sotto diretto controllo britannico), fu da ispirazione anche per la politica economica turca della fine degli anni ’20 e ’30, con l’obiettivo di assicurare al Paese una rapida modernizzazione ed industrializzazione.
Come già anticipato, la politica estera kemalista si fondava su un ruolo geopolitico piuttosto limitato per la Turchia. Era impossibile proiettare influenza verso l’esterno se prima non si erano ancora creati i presupposti per costruire una vera e propria identità nazionale. In questo senso, il kemalismo si poneva rispetto al “fuori” in modo assai pragmatico e tenendo bene a mente la realtà economica, sociale e culturale del Paese in quel preciso momento storico. Il motto kemalista, infatti, era: “i turchi non hanno altri amici oltre ai turchi”. La Turchia poteva contare solo sulle sue gambe, ma doveva necessariamente guardare ad Occidente. Il kemalismo era “occidentalista” (batici) perché l’Occidente rappresentava un modello di civiltà moderna, tecnologica e militare, capace di dominare sugli altri.
Allo stesso tempo, sebbene il patto nazionale alla base della guerra dei primi anni ’20, avesse come obiettivo quello di liberare i territori anatolici abitati da musulmani (turchi e curdi, che venivano considerati alla stregua di “turchi di montagna”), il modernismo kemalista ruppe il legame religioso tra le due popolazioni, e già a seguito dell’abolizione dei tribunali sharaitici e la chiusura delle scuole coraniche si scatenarono le prime rivolte interne guidate dalle confraternite sufi (la Naqshbandiyya, in particolare). Con le stesse confraternite che vennero abolite nel 1926. Un fattore che, evidentemente, tradiva l’idea di “pace interna, pace col mondo” alla base della politica estera turca del periodo. Un periodo nel quale comunque la Turchia migliorò le relazioni con la Grecia e ottenne nuovamente pieno controllo degli Stretti.
Il medesimo spirito proseguì anche dopo la morte di Ataturk, con la “neutralità attiva” portata avanti nel corso della Seconda Guerra Mondiale, quando la Turchia arrivò a stipulare accordi con tutte le parti belligeranti, salvo poi svoltare in modo decisivo verso il campo alleato sul finire del conflitto. Agli anni della guerra, inoltre, si lega la legge sul patrimonio che, di fatto, era rivolta ad eliminare la rimanente classe mercantile/imprenditoriale non turca rimasta sul suolo anatolico. Altro elemento che successivamente spinse alla totale apertura verso Occidente per ottenere i fondi del Piano Marshall (615 milioni di dollari in quattro anni) ed avviare importanti riforme economiche strutturali (abbandono del tradizionale statalismo kemalista) per poter entrare negli organismi istituiti a Bretton Woods. Un Occidente che era dunque da intendere non più come Europa (Francia, Germania e Gran Bretagna) ma come vero e proprio emisfero occidentale: ovvero, gli Stati Uniti. Per Washington, infatti, la Turchia, confinante con l’URSS, aveva una posizione di enorme rilevanza strategica all’interno del Mediterraneo. E, come stabilito dalla Dottrina Truman (esposta al Congresso nel 1947), in alcun modo si poteva lasciare che questa, insieme alla Grecia, scivolasse all’interno del campo socialista. Tuttavia, al contempo, gli Stati Uniti, armando entrambi, cercavano comunque di mantenere i due Paesi in una posizione di reciproca ostilità/diffidenza.
A prescindere da ciò, entrata nella NATO (dopo aver inviato un piccolo contingente in Corea) e poi all’interno del Patto di Baghdad, la Turchia, almeno fino al 1967 (anno della decisiva svolta USA verso Israele), rimase il principale avamposto nordamericano nel Mediterraneo orientale. In questo periodo, inoltre, si sviluppano proprio i rapporti con Israele, che la Turchia riconosce nel 1949. Al 1958, invece, risale un accordo segreto tra il primo ministro turco Adanan Menderes e quello israeliano David Ben-Gurion sulla definizione di un’alleanza strategica votata alla cosiddetta “dottrina periferica”. Un accordo che si proponeva lo scambio di informazioni di intelligence e la piena cooperazione tra i due Paesi nel campo della tecnologia militare.
La posizione di privilegio nei piani USA verrà in parte perduta anche a seguito dell’intervento a Cipro nel 1974, con i sovietici che, nonostante i periodici colpi di Stato anticomunisti in Turchia, si allineano sulla posizione di Ankara perché spaventati dall’idea che l’isola potesse divenire una nuova base di lancio per operazioni NATO nella regione.
A cavallo tra anni ’60 e ’70, inoltre, si affermano in Turchia nuove correnti politiche. Ad una riscoperta dell’Islam (sebbene ancora parziale) come “religione e mondo”, fa da contraltare un radicalismo nazionalista che trova voce nel Partito della nazione contadina e repubblicana di Alparslan Türkeş, la cui ideologia si fondava sulle cosiddette “nove luci”: a) nazionalismo; b) idealismo; c) moralismo; d) socialismo; e) scientismo; f) ruralismo; g) sviluppo e populismo; h) industrialismo; i) tecnicismo. Tale movimento, che poi diverrà il Partito d’azione nazionalista, era anche dotato di una struttura giovanile, la Gioventù Idealista, passata alla storia con il nome “lupi grigi”: di fatto, un’organizzazione paramilitare, legata ad apparati segreti della NATO (sulla scia di simili gruppi presenti all’interno di altri Paesi dell’Alleanza Atlantica), che svolse un ruolo di rilievo in quella che potrebbe essere definita come una versione turca della “strategia della tensione”, insieme al movimento Kontrgerilla (anch’esso messo in piedi con il sostegno logistico della CIA). Ad ogni modo, una prima reale svolta nella politica estera turca si avrà con il decennio al potere di
Turgut Özal a cavallo tra anni ’80 e ’90 del Novecento. Un periodo che coincide anche con la massima tensione rispetto alla lotta contro l’indipendentismo curdo ed al rapporto con il vicino siriano. Özal, infatti, può essere considerato a ragione come il primo ad aver ripensato la politica estera turca dopo il crollo dell’URSS ed il repentino cambio degli scenari internazionali. Convinto che il “mondo turco” si estendesse dall’Adriatico alla Grande Muraglia della Cina, è stato lui ad ispirare in qualche modo l’elaborazione strategica di Ahmet Davutoğlu, intellettuale di riferimento e per lungo tempo ministro degli esteri nell’era dell’AKP al potere nel XXI secolo. Ed è stato sempre lui a proporre per primo quella commistione tra politiche neoliberali ed Islam politico che sarà alla base delle ricette nazionali dell’AKP. Affermava Özal: “Siamo un Paese musulmano. Abbiamo delle differenze con l’Occidente […] Noi siamo il ponte tra l’Occidente e l’Oriente. Dobbiamo prendere la scienza, la tecnologia, il pensiero dell’Occidente. Ma abbiamo anche i nostri valori che l’Occidente non ha”.
Un’era, quella dell’AKP al potere, in cui si possono distinguere almeno quattro diversi orientamenti, legati tra loro dal fatto che, per il Partito di Recep Tayyip Erdoğan, la politica estera diviene spesso strumento di legittimazione politica interna. Il primo di questi orientamenti (che corrisponde anche al primo periodo al potere dell’AKP) è stato contraddistinto dal tentativo di ancoraggio all’Unione Europea; da utilizzare come viatico per attuare riforme interne che non fossero in contrasto con l’ancora preponderante élite kemalista. Una posizione comunque superata quasi subito a causa di nuove tensioni a Cipro, con il fallimento del Piano Annan, sostenuto dalla Turchia ma non dalla Grecia. Il secondo orientamento, invece, è intrinsecamente connesso con il lavoro di Davutoğlu sulla “profondità strategica” della Turchia e legato anche a tendenze panturaniche. Scrive l’ex ministro degli esteri turco: “Data la profondità strategica del Paese, essendo stata l’epicentro di importanti eventi storici durante l’Impero ottomano, la Turchia deve adottare un approccio equilibrato nei confronti di ogni attore regionale e globale e deve stabilire forti legami economici con tutti gli Stati della regione”.
Secondo il “professore”, gli attori della politica estera turca che si sono susseguiti nei decenni sono stati “alienati”. Hanno rifiutato la cultura ed i valori della loro terra, producendo un’azione geopolitica timida, senza reali convinzioni, non indipendente ed incoerente con la profondità storica e geografica del Paese. L’azione della Turchia, invece, deve fondarsi proprio sulle radici storiche e sulla stessa geografia. In questo senso, Ankara dovrebbe sia (ri)accollarsi la responsabilità sul mondo islamico che fu sua ai tempi dell’Impero; sia lavorare per sfruttare la sua posizione, trasformandosi in Paese perno capace di connettere tutti i vicini a livello economico e culturale. Un’azione che deve basarsi sull’utilizzo di strumenti di potere “forte” e “morbido”, con una sostanziale preferenza per il secondo (almeno nei primi anni al potere dell’AKP). Non a caso, al 2009 corrisponde l’apertura alla libera circolazione delle merci tra Turchia, Libano, Siria e Giordania (che durerà assai poco). Un evento comunque di fondamentale importanza se si considera che, nel 1998, Siria e Turchia erano arrivati sull’orlo della guerra a causa di dispute sullo sfruttamento delle acque dell’Eufrate; per il sostegno di lunga data garantito dal regime di Hafez alAssad al PKK curdo; e per le rivendicazioni siriane sulla regione di Antiochia (a maggioranza araba), annessa alla Turchia nel 1939 grazie alla Francia (che puntava alla neutralità turca nel conflitto con la Germania nazionalsocialista).
Potere morbido e potere forte, di fatto, sono estremamente connessi. Le capacità di potere morbido di un determinato Paese sono il sottoprodotto della sua capacità di esercitare il potere forte. Se il potere morbido non è sostenuto dalla effettiva capacità di potere forte (economia forte, esercito forte e stabilità politica interna) i tentativi di mantenere l’egemonia culturale divengono uno sforzo inutile. L’esempio più evidente in questo senso è quello di indubbio successo rappresentato dagli Stati Uniti sull’Europa. Se si volesse prendere in considerazione un esempio “negativo”, invece, si potrebbe tenere a mente il tentativo fallito della Siria di Bashar al-Assad nei primi anni ‘2000, quando lavorò per divenire una sorta di ponte tra mondo turco, arabo e persiano. Un fallimento, ovviamente, dettato anche dall’aperta ostilità dell’Occidente maturata con il sanguinoso conflitto interno del 2011 (di fatto, una sorta di guerra mondiale in scala ridotta).
In questo campo, l’AKP ha sicuramente rappresentato un interessante modello di costruzione egemonica interna legata al presupposto gramsciano secondo cui il “successo politico è strettamente legato al raggiungimento del potere a livello di produzione culturale”. E proprio sotto l’AKP è stata portata avanti un’azione di vera e propria diplomazia culturale interconnessa sia alla capillare diffusione di serie televisive turche nell’area del Vicino Oriente, del Nord Africa e dell’Asia Centrale; sia al ruolo dei centri culturali turchi all’estero, di organizzazioni non governative e di associazioni di sostegno sociale e sanitario. Un’azione che ha spinto la Turchia a pensare di poter esportare il proprio modello di “Islam moderato” e di “democrazia islamica” nel momento in cui la regione è stata sconvolta da quella è stata fatalmente ed erroneamente definita come “primavera”: una “catastrofe geopolitica” non dissimile da quella arrivata con il crollo dell’URSS e di cui, ancora oggi, i popoli dell’area ne pagano le conseguenze.
Il terzo orientamento è inerente al consolidamento del progetto “Nuova Turchia” di Erdoğan. Qui, pragmatismo geopolitico ed interventismo nei principali teatri regionali (e non solo) si mischiano ad un rinnovato spirito nazionalista, conservatore e sotto molti aspetti autoritario (il sistema turco è stato definito come “autoritarismo elettorale”). Di fatto, sebbene tale orientamento si ricolleghi all’esito tragico delle rivolte arabe del 2011, è solo a partire dal fallimento del golpe gulenista del 2016 e dei colloqui di Crans-Montana sul futuro di Cipro che prende piede definitivamente. Questo è il periodo in cui la Turchia inizia ad operare con maggiore autonomia rispetto alla NATO e spesso in contrasto con gli interessi nordamericani in Siria (tre operazioni militari rivolte contro le milizie curde sostenute dall’Occidente), e con una interessante altalena di rapporti con Russia, Iran, Israele e gli Stati del Golfo Persico (fatta eccezione per l’alleato qatarino).
Il quarto orientamento è quello della “Patria blu” (Mavi Vatan). Prodotto del pensiero dell’ammiraglio Cem Gürdeniz, coinvolto a suo tempo nel processo Bayloz (una sorta di complotto ordito da alcuni ufficiali per dimostrare la sostanziale debolezza del governo Erdoğan), la dottrina della “Patria blu” rivendica un maggiore ruolo marittimo per la Turchia. Questa, circondata da mari strategicamente importanti, deve necessariamente estendere il concetto di “Patria” oltre la terraferma. In altri termini, tale dottrina si pone come obiettivo quello di trasformare la Repubblica turca in una potenza marittima, pareggiando almeno il ruolo che ebbe nel Mediterraneo in epoca ottomana. Obiettivo sicuramente ambizioso, se si considera che il popolo turco non ha esattamente un ottimo rapporto con il nuoto.
Allo stesso tempo, la “Patria blu” rifiuta il neo-ottomanesimo di cui si sono fatti portavoce alcuni esponenti dell’era erdoganiana (sebbene questo venga spesso frainteso con il nazionalismo turco o con il più semplice patrocinio turco dell’Islam politico oltre confine), preferendo l’instaurazione di legami più proficui soprattutto verso l’Asia Centrale (il Mar Caspio, ad esempio, viene considerato come un mare interno al mondo turco).
Questa estensione del concetto di “Patria”, ovviamente, è funzionale al progetto di sfruttare i bacini di idrocarburi in alto mare e di contrastare la pretesa greca di espandere la propria ZEE (zona economica esclusiva) all’intero Mare Egeo. Alla dottrina Gürdeniz si devono le esplorazioni nelle acque contese al largo dell’isola greca di Kastellorizo, che dista solo pochi chilometri dalla costa turca, ed il memorandum con il governo libico delle Tripolitania sulla divisione delle rispettive ZEE (interessante, in questo senso, il fatto che la Turchia, dopo aver a lungo sostenuto Tripoli ed evitato che la città venisse assediata dalle milizie dell’uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar, abbia recentemente avviato negoziati con lo stesso Haftar, preceduti da un incontro ad Ankara tra il figlio di quest’ultimo, Saddam, ed i vertici politici turchi). Tra l’altro, certa storiografia ha spesso cercato di presentare la Turchia come responsabile della destabilizzazione della Libia. In realtà, l’intervento NATO del 2011, di fatto, ha distrutto l’asse commerciale che il governo dell’AKP ed i suoi immediati predecessori avevano costruito con Gheddafi. Ciò che è arrivato dopo è stato solo il tentativo turco di ricostruire un rapporto privilegiato con il Paese nordafricano. Lo stesso discorso vale per l’Egitto, con i rapporti turco-egiziani rafforzatisi in modo importante sotto il regime di Mubarak. Di conseguenza, sarebbe più corretto affermare che il governo dell’AKP, e Davutoğlu in particolare, abbiano inizialmente frainteso o sottostimato il fenomeno delle rivolte arabe e che, solo in un secondo momento, abbiano cercato di porvi rimedio o di trarne vantaggi diretti in termini geopolitici, utilizzando il suddetto mix di pragmatismo e interventismo o, addirittura, lasciando via libera ai miliziani gihadisti entrati in Siria dalla Turchia o alle forme di contrabbando legate alle entità territoriali/terroristiche (dal sedicente Stato islamico all’enclave di Idlib, dalla quale è partita l’offensiva del 2024 verso Aleppo e Damasco).
A proposito della “Patria blu”, infine, è bene sottolineare che la Turchia non ha ratificato la Convenzione ONU sul diritto del mare del 1982. Questa prevede che le acque territoriali abbiano un’estensione di 12 miglia marine; mentre la zona economica esclusiva può arrivare fino alle 200 miglia dalla piattaforma continentale. Anche le isole hanno diritto ad una piattaforma continentale con possibilità di sottoscrivere accordi per delimitare la ZEE. Ora, la posizione geografica delle isole greche limita non poco lo spazio turco, e la stessa Turchia ha spesso rigettato ogni tipo di rivendicazione di Atene che superasse le 6 miglia marine. Sulla base della dottrina della “Patria blu”, invece, la Turchia avrebbe pieni diritti su uno spazio marittimo che si espande per 462.000 chilometri quadrati di mare (compreso quello prospiciente al territorio della Repubblica turca di Cipro nord).
Questi aspetti verranno ulteriormente approfonditi nella parte di questo contributo inerente la questione di Cipro. Qui sarà interessante osservare anche come alcuni analisti abbiano associato la dottrina elaborata da Gürdeniz ad una forma di eurasismo, visto l’interesse dimostrato verso l’Asia Centrale. Sicuramente, questa dottrina si fonda su un approccio antiegemonico e critico contro una politica estera troppo filo-occidentale. Tuttavia, se si volesse individuare una vera forma eurasista turca, la si troverebbe nel lavoro del poeta kemalista/socialista (e con più di una simpatia per il comunismo; si pensi alla sua ammirazione per l’ancora più celebre poeta comunista Nazim Hikmet) Attilâ İlhan (deceduto nel 2005). Questi, alla pari del precursore russo dell’eurasismo Konstantin Leont’ev (1831-1891), vedeva con favore un’alleanza russo-turca in chiave puramente antioccidentale. La stessa contrapposizione tra Russia e Turchia, a suo modo di vedere, era infatti un mero prodotto dell’imperialismo dell’Occidente. In conclusione, si rende opportuno analizzare due particolari relazioni: quella tra Turchia ed Azerbaigian e quella tra Turchia e Israele. Si è già accennato alla seconda. Tra Israele e Turchia, di fatto, si registra un idillio cooperativo che arriva intorno alla metà degli anni ’90, successivo alla Seconda Guerra del Golfo. Il successo dell’Islam politico in Turchia e la Seconda Intifada, tuttavia, portano ad un sostanziale raffreddamento dei rapporti che peggiora definitivamente a seguito dell’operazione “Piombo Fuso” contro Gaza e l’episodio dell’arrembaggio israeliano alla nave Mavi Marmara (nel quale morirono 9 attivisti turchi) che, insieme alla Freedom Flotilla, stava cercando di forzare l’illegale blocco navale di Gaza che persiste ancora oggi. L’episodio porta alla rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi per diversi anni, ma bisogna comunque riconoscere che la contrapposizione tra Turchia e Israele è spesso stata più cosmetica che reale. La Turchia erdoganiana ha sempre aspirato a svolgere un ruolo di mediatore nell’ambito del conflitto israelo-palestinese. E, in questo senso, ha spinto per far uscire il Movimento di Resistenza Islamico (Hamas) dall’isolamento internazionale. A questo scopo ha sia garantito sostegno ad Hamas tramite le organizzazioni caritatevoli presenti nella Striscia (ragione per cui sono state prese di mira da Israele nei due anni successivi al 7 ottobre 2023); sia operato con l’Autorità Nazionale Palestinese per fare in modo che questa riconoscesse dapprima la vittoria elettorale di Hamas nel 2006, e successivamente per cercare di mantenere unito il fronte palestinese.
Va da sé che Israele, prima del 2023, ha spesso criticato il ruolo delle ONG turche in Palestina non tanto per il loro sostegno al Movimento di Resistenza, ma perché queste promuovevano la tutela del patrimonio culturale e storico palestinese. Progetto che, ovviamente, appariva in contrasto con il disegno sionista di sua totale cancellazione.
Nel 2016, le relazioni diplomatiche tra Turchia ed Israele vengono ristabilite (quelle commerciali e di intelligence non sono mai state interrotte, e lo stesso discorso vale anche per le tensioni con l’Egitto dei medesimi anni) e nel 2020 l’export israeliano verso la Turchia raggiunge 1.5 miliardi di dollari, mentre quello turco verso Israele è pari a 4,67 miliardi. Tale incongruenza di fondo in questa relazione si registra ancora oggi, dopo due anni di sterminio a Gaza e nonostante la concorrenza tra i due nel settore del trasporto del gas verso l’Europa, le inclinazioni israeliane ad ignorare le rivendicazioni turche a Cipro e nonostante, dall’altro lato, il congelamento temporaneo (e parziale, nella Striscia si continua a morire) del conflitto a Gaza. Tanto che i giornali israeliani non perdono occasione per attaccare la Turchia, talvolta presentandola come minaccia peggiore dell’Iran.
Per ciò che concerne l’Azerbaigian, si dovrebbe invece considerare che la Turchia opera verso l’estero con un mix di costruttivismo sociale e neorealismo (utilizzando la teoria delle relazioni internazionali). Il costruttivismo sociale si applica quando vi è una vicinanza fraterna o quasi con le popolazioni vicine (il caso azero o quello dei turcomanni siriani e iracheni). Ed il rapporto con l’Azerbaigian è fondato proprio sulla fratellanza storica tra i due Paesi: la repubblica azera, a cavallo della fine della prima guerra mondiale e dei primi anni ’20, prima che divenisse sovietica, aiutò il movimento nazionalista turco kemalista con prestiti e carburante. Oggi, l’Azerbaigian è fondamentale per la proiezione di influenza turca nel Caucaso, sul Caspio ed in Asia centrale.

